paesaggi interrotti





Gabriele Perretta
La teoria discorsiva della “comunicazione collettiva” è ancora oggi il punto di partenza per molti artisti, che intendono elaborare una riflessione circa il ruolo e le funzioni della sfera pubblica nella società moderna. Essa può essere definita come una delle teorie mediali, per l’analisi, l’interpretazione e la valutazione del concetto stesso di informazione e diffusione di conoscenze comuni. Ad una prima approssimazione, possiamo affermare che la sfera pubblica, così come la concepiamo oggi, è un prodotto essenzialmente moderno e l’idea di base è che essa nasce e si sviluppa con il rafforzarsi delle istituzioni rappresentative e con l’evoluzione del concetto di pubblico. 
Un orizzonte che negli ultimi anni è ormai andato totalmente in crisi, grazie all’affermarsi dei processi di globalizzazione. Infatti, su questi punti vi è un generale accordo! Stando alla situazione politica e culturale odierna forse è il caso di rivolgersi – ma senza nostalgia – alla storia della polis greca. Ancora oggi si può dire che l’esperienza della polis greca – anche se si presentava priva di qualsiasi dimensione che possa sostenersi realmente normativa (Arendt) – nel bene e nel male è stata una delle prove della storia dell’Occidente. Essa era organizzata in modo che le disuguaglianze strutturali non fossero evidenti sul piano della partecipazione politica e si basava su una netta separazione tra la sfera politica e quella domestica. Vi era una quasi totale assenza di diritti individuali; infatti, il cittadino poteva sì partecipare e discutere dei problemi comuni, ma solo nella misura in cui non si problematizzasse la polis come unico modello di comunità e non si mettesse in discussione la supremazia della stessa. Per fare ciò c’era bisogno di un istituto democratico sopraggiunto solo con l’avvento della modernità, il diritto di libertà individuale (Arendt). La polis ha sicuramente istruito una pregevole autorevolezza sulle concezioni attuali di democrazia, soprattutto per via del nucleo normativo che la caratterizza, ovvero l’uguaglianza come reciprocità (Arendt, Habermas). A partire da queste considerazioni, potremmo dunque azzardare un’ipotesi meno rigida, e cioè che la sfera pubblica non è un prodotto moderno, essa è piuttosto il frutto di un lento processo cominciato nelle città-stato greche e che nella modernità ha avuto la sua massima espressione. La sfera pubblica, quindi, nasce nell’antichità ma si sviluppa solo con l’affermazione della modernità. Essa è il risultato di almeno tre grandi trasformazioni che nel corso della storia hanno contribuito ad articolarsi. La prima grande trasformazione riguarda la rivoluzione giuridica. La seconda trasformazione fa riferimento al graduale processo di individualizzazione, la sfera politica è divenuta autonoma differenziandosi così da quella economica, indicando in questo modo una graduale emancipazione del singolo dall’autorità politica. Infine la terza trasformazione riguarda i media che rappresentano una spinta dal concreto all’astratto, trasformando lo spazio pubblico da un contesto assembleare di tipo dialogico in un nesso di comunicazione mediato senza limiti di tempo o spazio. A partire da queste riflessioni, possono essere delineati due modelli di sfera pubblica che, anche senza una vera e propria stesura, sono emersi nell’arco della modernità e reggono il nostro discorso attraverso l’arte: un modello liberale, dove l’individuo è l’espressione di una razionalità economica e di mercato, in cui inevitabilmente il soggetto è inteso come un puro agente economico in opposizione alla sfera politica, e un modello repubblicano. L’individuo liberale viene concettualizzato come titolare dei diritti di una sfera privata insondabile e insindacabile, che non può essere fatta oggetto di discussione pubblica. La sfera pubblica risulta così come un campo di aggregazione e di scontro di interessi di gruppo, che si rappresentano pubblicamente con l’obiettivo di ottenere consensi. La sfera pubblica finisce con il rientrare nel più ampio quadro concettuale relativo all’ordine e alla coesistenza. Come dovrebbe tendere a sottolineare l’arte organizzata come azione pubblica, le pratiche di governo sembrano ignorare il valore della discussione popolare. Il modello repubblicano, invece, propone una nozione profondamente politica di individuo, incentrata sulla sua capacità di costruire socialmente la propria identità nel corso dei processi sociali di auto-definizione. Infatti, nel modello repubblicano i diritti politici di maggiore peso sono i diritti positivi di partecipazione che si esercitano in un quadro di democrazia deliberativa. Il concetto di sfera pubblica legato all’azione artistica è dunque complesso. Come sottolinea Hannah Arendt, la sfera pubblica si fonda nella presenza simultanea di innumerevoli prospettive e aspetti in cui il mondo comune si offre, e per cui non può essere trovata né una misura comune né un comun denominatore (Arendt). Ma di fronte all’intervento di arte pubblica “Paesaggi interrotti”, a cosa serve un’analisi del “bene comune” e dell’attuale sua situazione politica? Serve a collegare le contraddizioni correnti della polis con i conflitti di ecologia politica. Il lavoro di Voyagerlab, messo a punto già cinque anni or sono, contro la raffineria dell’API e con l’impiego di poster pubblicitari di 6x3m, reca un’immagine e un proverbio tradizionale che costruisce una scenografia interattiva. Diciamo che, pur sé con gran fatica, oggi in Italia e in Europa l’esperienza dell’arte pubblica è quella che in misura maggiore ha ereditato le investigazioni che dal dopoguerra e fino agli anni Settanta si sono annoverate sotto l’etichetta dell’arte politicamente impegnata e dell’agire critico contro l’ideologia ambientale capitalistica. Distinguendo tra esperienze ed esperienze, e affermando più il polo anarchico e libertario e meno quello che in Italia era inquadrabile con i Festival dell’Unità e del massimalismo “piccista”, la public art ha lasciato un segno che oggi ha dilagato in una sorta di esperienza post-concettuale e di arte come partecipazione sociale. E allora nelle politiche della polis, dove sono i nostri Voyagerlab? Insomma, in quest’ambito ci sono quelli che familisticamente tendono ad una sorta di connecting culture, pensando che l’esperienza mediale non sia stata e non sia già tutto questo, e quelli che invece, provenendo da un esercizio più propriamente “mediale” (nel vero senso di pubblico e di facilmente comunicativo), credono che l’easily communicative sia una sorta di autogestione più spontanea e diretta. Dunque, tra i contributi che vorremmo inquadrare in questa seconda sfera di obiettivi va annoverata l’ultima ricerca messa a punto da Silvia Paoletti e Massimo Cartaginese. Pensando di portare l’opera fuori da qualsiasi spazio domestico, e dovendo agire al di là del lib/lab o della polis ideologicamente repubblichina, sulla piazza del teatro cittadino i Voyagerlab hanno montato tre strutture di tubi innocenti ricoperte su tutti i lati di pannelli di legno: sui lati lunghi affiggono poster di dimensioni 6 x 3, mentre sui lati più corti della pannellatura espongono testi peritici ed esplicativi del progetto: introduzione, planimetria e titoli dei poster, crediti, sponsor e brevi scritti. A vista d’occhio, il piano dell’intervento pubblico spiega come saranno dislocate le tre strutture. Da qui in poi anche la sistemazione acquista una logica progettuale ben precisa. Questa installazione favorisce l’interazione diretta con il pubblico, seguendo un’indicazione che tende a sistemare in maniera poco lineare la profondità degli oggetti comunicativi. Paesaggi Interrotti, con la sua tipologia di collocazione, equivale ad un’affissione pubblicitaria in spazio urbano. Con i dodici manifesti, nel senso più classico del termine, i Voyagerlab provano a raccontare il fiume Esino, segno importante dell’ambiente naturale, non più integrato nella vita di chi abita quel luogo. Il progetto nasce per il quartiere di Villanova a Falconara, tessuto urbano discontinuo e disomogeneo, con l’intenzione di provare a ricucire un discorso sulle originarie qualità ambientali dei luoghi. L’Esino arriva al mare, quindi dal locale al generale, come tutti i fenomeni che partono da una realtà nativa e circoscritta, da discorso di denuncia situato sulla sospensione di “luogo” e di “ambiente vivo”, più che di “scenario”, ben presto si allarga a manifestazione (manifesto!) di contraddizione generale. Come quegli artisti marchigiani che oggi sono ancora poco considerati, e che negli anni Sessanta e Settanta hanno portato molto lontano il rapporto tra arte e natura, mi riferisco a Claudio Cintoli o a scrittori come Paolo Volponi, Voyagerlab ha cercato le memorie del fiume Esino, che i progressivi interventi industriali hanno cancellato, rendendolo muto. Voyagerlab rimanendo affascinati della storia e della risorsa del fiume, come bene ambientale prezioso ha operato dunque una perlustrazione archeologica che piegasse lo strumento dell’arte pubblica ad un medium di contestazione civile. Tale opposizione i componenti di Voyagerlab l’hanno formata utilizzando, come segno che contraddistinguesse la comunicazione, “schegge e frammenti di proverbi locali”. Il proverbio è la voce della tradizione e restituisce la parola, se non al fiume, quantomeno al suo rapporto antico con l’umanità che lo ha attraversato. Probabilmente, facendo pressione su una tendenza che negli ultimi anni si è manifestata tra i cultural studies, è nelle intenzioni degli artisti sfidare quella proposta ideologica della storia capitalistica che vuole diffondere la preclusione che ormai dopo la globalizzazione non è più possibile nessuna antropologia e nessuna riconsiderazione del folklore. Considerando viceversa le prospettive rilanciate dall’analisi delle comunità diasporiche di Arjun Appadurai, e quindi contro il massimalismo banale della “moltitudine”, Voyagerlab attraverso l’Esino passano dagli effetti della delocalizzazione alla riconfigurazione dello spazio pubblico. Qui secondo Paoletti & Cartaginese il proverbio è un luogo comune, dunque estensione significante dove le persone si ritrovano riscoprendo il senso di appartenenza e la capacità di abitare un ambiente. Anche i manifesti vanno oltre l’esperienza grafica e pubblicitaria, pur assimilandola come strumento necessario di comunicazione, diventano il paesaggio interiore su cui le figure si appoggiano, linee politiche e forme evocative di nuove interpretazioni. Il proverbio qui si trasforma in una funzione prossemica, esso non segue il distico della poesia in rima baciata e neanche quella in quartine che va verso la forma dello stornello, ma sviluppa la decisione del detto popolare che fissa in forma codificata un dato dell’esperienza, una credenza che si rivolta contro se stessa. Il proverbio non è “pro/verb-iale”, ma è la riconferma nell’ambito della tradizione visiva delle ricerche che dall’imaginismo, dal cubo-futurismo, dallo zeugma di Velimir Khlebnikov alla visual poetry del Gruppo 70, come strumento che canta la tradizione, diventa ritmo dal tono “popolare”, “ponte verso la terra”, istigando un “senso di relazione e di usanza”. La premessa fondamentale della Paoletti e di Cartaginese è che l’esperienza artistica, concepita non più soltanto come intervento meramente decorativo o di “intrattenimento”, può affermarsi come un utile sussidio alla “modificazione” condivisa del territorio, un primo passo verso la valorizzazione dell’identità del luogo e del senso di appartenenza. Coinvolgimento personale, modalità di relazione e trasmissione di contenuti basate sull’idea di processo non fittizio ma vero, quanto sono vere le condizioni critiche del fiume Esino, servono ad andare oltre lo strumento della denuncia. I due artisti marchigiani hanno scelto un fiume, quel Fiume, per il suo valore reale che poi diventa sociale e metaforico, e per il rapporto elettivo con la loro stessa regione e territorio. In un paese in cui, soprattutto nell’attenzione all’ambiente, il progetto progressista è stato sottoposto a speculazioni ed a disastri ideologici di ogni sorta, il ruolo della public art va oltre l’esperienza die grun scaturito da J. Beuys; qui, la necessità di fare avanti il discorso ecologico è celebrato da una poetica via dell’acqua che percorre la città e la connette ai villaggi sulle colline circostanti. Voyagerlab ha scelto la processualità insita nella produzione stessa del dato naturale per costruire l’autogestione e l’autonomia del proprio tempo. I modi e le possibilità con cui la conoscenza personale viene attualizzata attraverso la condivisione e il mescolamento delle fonti si rispecchiano nella varietà e diversità espresse nella produzione dell’acqua fluviale. Tornando ad un’altra celebre risorsa intellettuale locale, come il Leopardi de La quiete dopo la tempesta, potremmo quasi dire che l’Esino e la sua vita attendono che “… il sereno/rompe là da ponente alla montagna;/ sgombrarsi la campagna,/e chiaro nella valle il fiume appare./ (Canti, 1-7).












veduta dell'installazione. Jesi agosto 2009